TMEM161B come marker di depressione

 

 

LUDOVICA R. POGGI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XXI – 16 marzo 2024.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

A cosa serve un biomarker di depressione? La maggioranza degli psichiatri considera le molecole candidate come un possibile ausilio nella diagnosi differenziale e in quei casi in cui una sintomatologia incompiutamente espressa o poco evidente può generare qualche dubbio. Ben pochi ritengono che con un biomarker si possa ottenere un significativo miglioramento diagnostico, in termini di precocità della diagnosi e numero di casi rilevati; e quasi nessuno pensa ai marker in termini terapeutici. Ma, se un biomarker è un indice fedele e affidabile di stato funzionale o stato fisiopatologico, come in tanti altri settori biomedici, un tale contrassegno dovrebbe interessare anche la terapia, soprattutto nel monitoraggio dell’efficacia del trattamento e dell’evoluzione migliorativa del paziente.

Ma, per quanto ne sappiamo, un simile biomarker non è ancora disponibile, anche se ne sono stati proposti molti, e i più convincenti sono stati da noi presentati negli anni in queste “Note e Notizie”[1]; forse un’eccezione si potrebbe fare per il marker EEG individuato lo scorso anno da Masahiko Morita, Ryusei Otsu e Masahiro Kawasaki[2], ma il giudizio espresso da Giovanna Rezzoni ci induce a rimanere molto prudenti:

“Ad avviso di chi scrive, anche se l’individuazione inedita di questa attività elettrica che sembra essere specifica è molto stimolante, è prematuro parlare di biomarker, soprattutto perché l’esiguità del campione priva di significatività il risultato ottenuto. Sarà necessario ottenere dati su centinaia di volontari, con disegni sperimentali che mettano a confronto i tracciati correlati all’umore depresso con profili EEGrafici di altre manifestazioni cliniche dei principali disturbi mentali, oltre che con gli stati eutimici di persone in buona salute psichica”[3].

Dunque, un indice che consenta certezza diagnostica, efficace monitoraggio della terapia e formulazione di giudizi prognostici sul decorso clinico di un disturbo depressivo maggiore (MDD, da major depressive disorder) non è stato ancora individuato; per questa ragione, uno studio condotto da Malika El Yacoubi e colleghi, che ha identificato in due diversi modelli poligenici di MDD, un potenziale biomarker che risponde a queste esigenze, è di sicuro interesse psichiatrico e neuroscientifico.

(El Yacoubi M. et al., Two polygenic mouse models of major depressive disorders identify TMEM161B as a potential biomarker of disease in humans. Neuropsychopharmacology – Epub ahead of print doi: 10.1038/s41386-024-01811-8, 2024).

La provenienza degli autori è la seguente: University Paris Est Créteil, INSERM, IMRB, Translational Neuropsychiatry, Créteil (France); SLEEP Team, CNRS UMR5292; Lyon Neuroscience Research Center, Lyon (Francia); University of Lyon 1, Lyon (Francia); NETRIS Pharma, Lyon (Francia); Department of Clinical Neuroscience, Karolinska Institute, Solna (Svezia); UMR 1253, iBrain, University of Tours, CHRU of Tours, INSERM, Tours (Francia); Expert Center for Resistant Depression, Fondation FondaMental, Tours (Francia); University Pole of Psychiatry, CHU of Montpellier, Montpellier (Francia); University Rouen Normandie, University Caen Normandie, Normandie University, Rouen (Francia); McGill Group for Suicide Studies, Douglas Mental Health University Institute, Department of Psychiatry, McGill University, Montreal, Quebec (Canada).

Per introdurre il lettore non specialista ai problemi e alle nozioni principali sui disturbi depressivi, riporto il recente excursus di Giovanna Rezzoni[4].

La condizione depressiva, anche se oggi è pressoché universalmente declinata secondo il paradigma dei disturbi del Manuale Diagnostico Statistico dell’American Psychiatric Association (DSM-5), nasconde l’insidia concettuale dell’ambiguità del termine depressione, che può essere riferito a un sintomo, a una sindrome o a un’entità nosologica, come affermava Lehmann già nel 1959. La categoria dei pazienti depressi è quantomai eterogenea, non soltanto perché include affetti da disturbo depressivo maggiore, disturbo depressivo da stress e fase depressiva dei due tipi di disturbo bipolare, ma perché vi fanno parte gli affetti da tutte le forme di patologia psichiatrica, neurologica e internistica che abbiano sviluppato il funzionamento cerebrale depressivo. Almeno un episodio depressivo temporaneo, anche se di breve durata, si può reperire nell’anamnesi di quasi tutti i pazienti, perché accade nella vita di tutti, anche delle persone con la migliore salute psichica e sempre allegre di natura, che si vada incontro a periodi di umore triste, mancanza d’iniziativa e sofferenza morale.

Dunque, è proprio la categoria della depressione come “classe” ad essere problematica, pertanto si è proposto di considerare nella diagnostica la possibilità dell’uso dimensionale del concetto di depressione, ogni volta che sia necessario, ossia in tutti i casi diversi da quelli in cui un disturbo depressivo maggiore o una fase depressiva nel bipolare costituiscano diagnosi esclusive.

Di fatto, fin dagli albori della psichiatria è apparso evidente che l’umore depresso non in tutti si accompagnava a uno stato di tristezza vitale, in cui l’individuo si sentiva svuotato di ogni interesse, e di inibizione all’azione o di dolore morale; ma si tendeva a riportare tutte le differenze alla gravità dello stato. La prima distinzione argomentata in modo rigoroso fu introdotta da Sigmund Freud col saggio Lutto e Melancolia, concepito prendendo le mosse dall’osservazione che, a causa di un lutto, delle persone in buono stato di salute psichica possono sviluppare una sintomatologia simile a quella della depressione, allora detta melancolia.

Le osservazioni proseguirono, e le distinzioni cliniche portarono ben presto a individuare pazienti affetti da uno stato depressivo profondo, statico, cronico caratterizzato da ideazione delirante, e pazienti che avevano sviluppato sintomi depressivi a seguito di uno stato di sofferenza affettivo-emozionale. Nel primo caso si parlava di depressione psicotica, nel secondo caso di depressione nevrotica, seguendo il paradigma consolidato dalla semeiotica psichiatrica di impronta psicodinamica, anche se sussisteva una distinzione tra una forma che si supponeva ereditaria e dovuta a un’anomalia cerebrale, detta depressione endogena, e una forma dovuta a una reazione a condizioni protratte di sofferenza emotiva o condizioni traumatiche per la psiche, definita depressione reattiva.

Per comprendere il modo in cui si è cercato di interpretare la realtà clinica, può essere utile qualche cenno storico.

La melancolia è originariamente una condizione patologica della medicina ippocratica e, se la sua definizione era stata tramandata fra i medici dall’opera di Diocle di Caristo (intorno al 360 a.C.) Pathos aitia therapeia (Malattia, causa, cura), dedicata in gran parte ai disturbi psichici, la portata concettuale del termine è evidente in un aforisma attribuito a Ippocrate che suggerisce un criterio diagnostico: “se la paura o la depressione dura molto tempo, questo è melancolico”[5]. In altri termini, la melancolia, al di là dell’erronea ipotesi patogenetica, corrisponde alla depressione endogena del ventesimo secolo. In Diocle troviamo l’origine del termine nella spiegazione della presunta causa dei sintomi: un addensarsi della bile nera (melaina kholē) intorno al cuore devia le facoltà psichiche attribuite dai Greci a quest’organo[6]. Alcuni pazienti melancolici presentavano disturbi intestinali, che oggi attribuiremmo a somatizzazione di reazioni ansiose da stress, per le quali Diocle prevedeva una specifica forma clinica: “Un tipo particolare di melancolia era quello che interessava la cavità addominale[7] e che poteva essere chiamata oltre che affezione melancolica anche affezione flatulenta…”[8].

Troviamo la stessa concezione di melancolia in Prassagora di Kos, capo della scuola medica ippocratica attivo nella seconda metà del IV secolo a.C.[9]

Dopo l’epoca ippocratica aurea, il termine melancolia è stato impiegato con accezioni molto differenti, in quanto i sia pur limitati progressi nelle conoscenze di fisiologia e medicina acquisiti durante il Medioevo avevano escluso la validità delle congetture greche, così che durante il Rinascimento la parola aveva preso a designare genericamente una sorta di “follia parziale” senza disturbi dell’intelligenza, ma che non implicava necessariamente la tristezza[10]. In altre parole, tutte le categorie cliniche che nella seconda metà del Novecento erano incluse fra i disturbi nevrotici o nevrosi o psiconevrosi emozionali. All’inizio del XIX secolo Esquirol, nel tentativo di definire una sistematica psicopatologica aderente alla propria esperienza e alle idee della nascente psichiatria scientifica, proponeva il superamento del concetto tradizionale di “follie parziali” sostituendolo con il termine monomania[11], distinto in una forma caratterizzata da un elemento espansivo o “monomania propriamente detta” e una “monomania triste” o lipemania.

Ma il modo in cui Esquirol e altri psichiatri cercarono di definire queste categorie diagnostiche rimase vago, impreciso e contraddittorio, tanto da ingenerare una grande confusione, e nella lipemania si finì presto per includere di tutto, così che Delasiauve dové intervenire escludendo da quel novero la confusione mentale e lo stupore; Morel argomentò che non aveva giustificazione includere nella lipemania la sindrome che poi diventerà il disturbo ossessivo-compulsivo; Kahlbaum fu costretto a spiegare che lo stato catatonico non era una forma di depressione, ma apparteneva a quel tipo di patologia che sarà poi sistematizzato nelle forme di psicosi schizofrenica; Falret e Lasegue, infine, tolsero dalla categoria della “monomania triste” i deliri cronici di persecuzione.

La caratterizzazione della depressione come stato psicopatologico avverrà solo grazie agli studi che prendono le mosse dalle pionieristiche descrizioni del disturbo bipolare che, prima di divenire la psicosi maniaco-depressiva di Kraepelin (1899), era stato descritto da Baillarger come follia a doppia forma (1854) e da Falret nello stesso anno col nome di follia circolare.

Dalla fine del XIX secolo comincia lo studio biologico dei disturbi dell’umore, con particolare attenzione all’ereditarietà familiare che, nei decenni seguenti, diventerà studio della genetica della depressione e della psicosi maniaco-depressiva. Intanto, si va affermando la cultura psicopatologica psicoanalitica, e la maggior parte degli psichiatri, escludendo la depressione del disturbo bipolare di livello psicotico, per decenni tende a considerare un’eziopatogenesi psicogena all’origine della depressione e, in generale, per quelli che si chiamavano i “due poli della reazione distimica”.

Dopo quell’epoca, giungiamo al tentativo contemporaneo ancora in atto di rifondare la pratica clinica su basi neuroscientifiche, prendendo le mosse dalla sicura individuazione di un fattore eziopatogenetico importante nell’attivazione intensa e protratta nel tempo dei sistemi neuronici dello stress, anche per chi non è geneticamente predisposto, e cercando di integrare una parte considerevole dei dati emersi dagli studi sperimentali di genetica, neurochimica, neurobiologia molecolare e neurofisiologia.

In definitiva, si può osservare che per la depressione, come per le altre grandi categorie della psichiatria, si è scontato per decenni un errore di impostazione: ritenere che la forma clinica fosse rappresentativa di un’identità patologica, e che la ricerca sull’eziologia e sulla patogenesi dovesse riferirsi in modo specifico alla configurazione sintomatologica su cui si basava la diagnosi.

Ritorniamo allo studio qui recensito.

I modelli murini di depressione sono insostituibili per lo sviluppo di farmaci antidepressivi e, più in generale, per lo studio comparato di questo disturbo umano. Ma, mentre gli studi genetici hanno recentemente dimostrato un contributo poligenico alle forme cliniche di MDD, i modelli correntemente più impiegati nella ricerca o riproducono gli effetti di un singolo gene o gli effetti dell’ambiente (ad es.: stress). El Yacoubi e colleghi, autori dello studio qui recensito, in passato hanno sviluppato un modello di comportamento simil-depressivo nei topi (H/Rouen), usando l’accoppiamento selettivo basato sulle reazioni comportamentali dopo uno stress acuto di media intensità nel test della sospensione della coda. Ora propongono un nuovo modello murino di depressione (H-TST) generato da un più complesso background genetico e basato sullo stesso processo di selezione.

Il primo passo è consistito nel confronto tra i due modelli murini e nella valutazione della loro risposta alle due classi principali di farmaci antidepressivi attualmente prescritti, cioè gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina e gli antidepressivi in rapporto col glutammato: i due modelli murini, (H/Rouen) e (H-TST), sono risultati molto simili in termini di neurofenotipo, ed entrambi si sono rivelati più sensibili agli antidepressivi dal meccanismo d’azione associato alla neurotrasmissione glutammatergica.

Il passo successivo è consistito in un sequenziamento esomico in entrambi i modelli murini, che ha consentito di rilevare che ambedue i modelli presentavano varianti danneggianti negli stessi 174 geni che, peraltro, sono stati associati a MDD nell’uomo. Fra questi geni, i ricercatori hanno osservato un più alto livello di espressione di Tmem161b nel cervello e nel sangue dei due modelli, (H/Rouen) e (H-TST).

Sono stati rilevati cambiamenti nel livello di espressione di TMEM161B nel sangue e nel cervello di pazienti affetti da depressione maggiore (MDD), paragonati ai controlli; e variazione dei livelli è stata riscontrata anche dopo un trattamento di 8 settimane con duloxetina, prevalentemente nei pazienti rispondenti al trattamento.

Nel suo insieme, questo studio presenta H/Rouen e H-TST come i primi due modelli poligenici animali di depressione (MDD), e mostra la loro utilità per l’identificazione di un biomarker sensibile come TMEM161B, oltre che per lo sviluppo di nuovi farmaci antidepressivi.

Ulteriori studi verificheranno l’effettivo valore di TMEM161B come biomarker di stato fisiopatologico depressivo.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Ludovica R. Poggi

BM&L-16 marzo 2024

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Si includono anche i marker della fase depressiva del disturbo bipolare (BD); l’ultimo studio in ordine di tempo da noi presentato: Note e Notizie 22-04-23 Marker depressivi ipotalamici nel disturbo bipolare.

[2] Note e Notizie 23-09-23 Verso una diagnosi EEG di depressione.

[3] Note e Notizie 23-09-23 Verso una diagnosi EEG di depressione.

[4] Note e Notizie 23-09-23 Verso una diagnosi EEG di depressione.

[5] W. H. S. Jones (testo a cura di), Aforismi, VI 23, Cambridge Massachusetts – London 1931.

[6] Diocle, Pathos aitia therapeia, (frammento 42 W), cit. in Vincenzo Di Benedetto, Il medico e la malattia – la scienza di Ippocrate, p. 51, Einaudi, Torino 1986.

[7] Ma non era l’unico, ve ne erano altri, come si evince dal frammento 43.5 W. di Pathos aitia therapeia.

[8] Diocle, Pathos aitia therapeia, (frammento 42 W), cit. in Vincenzo Di Benedetto, op. cit., idem.

[9] Un’epoca posteriore a quella dell’estensione della massima parte delle opere del grande Corpus Hippocraticum.

[10] Cfr. Henri Ey, P. Bernard Ch. Brisset, Manuale di Psichiatria, p. 267, Masson Italia Editori, Milano 1983.

[11] Il suffisso -mania era inteso quale sinonimo generico di disturbo psichico e non nella corretta accezione psichiatrica di disturbo eccitatorio caratterizzato da altissimo tono dell’umore, tachipsichismo, attivazione psicomotoria e aggressività fino alla furia pantoclastica.